Roma, 4 aprile 2024 – Un raid aereo delle forze armate israeliane (IDF), lo scorso 2 aprile, ha ucciso sette membri dell’organizzazione umanitaria World Central Kitchen (WCK) impegnati nell’aiuto umanitario a Gaza.
WCK non si occupa solo di dare cibo alle persone che ne hanno bisogno soprattutto in contesti colpiti dalla guerra e da disastri naturali. Ma di farlo nel rispetto delle tradizioni culinarie delle vittime dei conflitti e delle calamità. Persone cui tutto è strappato via, alle quali talvolta anche un pasto rimane l’unico conforto.
La squadra WCK stava viaggiando in una zona di salvaguardia, quindi che non avrebbe dovuto essere interessata da operazioni militari, a bordo di due auto blindate marchiate con il logo WCK e di un veicolo per il trasporto degli alimenti.
Avevano comunicato i loro spostamenti all’IDF. Nonostante questo sono stati intercettati e colpiti mentre lasciavano il magazzino di Deir al-Balah, dove la squadra aveva portato oltre 100 tonnellate di aiuti alimentari umanitari.
Per i CEO di WCK, Erin Gore, “questo non è solo un attacco contro WCK, è un attacco alle organizzazioni umanitarie che si presentano nelle situazioni più terribili in cui il cibo viene utilizzato come arma di guerra“. Gore ha definito imperdonabile ciò che è successo.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nelle ore successive, ha confermato che l’attacco è arrivato dall’IDF definendolo tragicamente compatibile con quel che capita durante una guerra.
L’importanza dei nomi
Ricordiamo i nomi dei sette cooperanti: Damian Sobòl, Lalzawmi Frankcom, Saif Issam Abutaha, John Chapman, James Henderson, Jacob Flickinger, e James Kirby.
Provenivano dall’Australia, Polonia, Regno Unito, doppia cittadinanza di Stati Uniti e Canada e Palestina.
I morti spesso rimangono anonimi. E, accanto a questi nomi, si sommano quelle decine di migliaia di persone di cui non sapremo nulla. Quelli che aspettavano un pasto, magari dopo giorni di fame. E coloro i quali, oltre al cibo, speravano in questi gesti di umanità come semi contro la barbarie della violenza.
Dare un nome alle cose non è un vezzo, è una necessità. Una necessità che viene avvertita anche nei primi racconti biblici. Una necessità che chiede conto dei silenzi, della diplomatica neutralità, della paura di scontentare qualcuno.
Dare un nome significa anche pronunciarlo. Avere cioè la forza di restituire alle parole il suono della voce, la fatica del respiro, la potenza del messaggio.
Date loro voi da mangiare
La morte di persone impegnate nel soccorso alimentare delle vittime della guerra appare così disarmante ed emblematica. Tanto più alla luce del racconto biblico della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Non sappiamo quanto consapevolmente o inconsapevolmente queste sette persone si rendessero conto di adempiere ad un preciso mandato evangelico. Che va oltre la necessità che talvolta abbiamo di fissare dei paletti, di stabilire colpe e responsabilità preventive per decidere cosa fare.
Mentre la promessa di una inchiesta “indipendente” si incaricherà di stabilire le responsabilità dell’ennesimo “danno collaterale”, fatichiamo ancora a renderci conto che non sono né saranno i conflitti a restituire giustizia a chi è morto, alle persone che, al terrore della guerra, sommano la fame.
Ancora una volta come cristiani e cristiane siamo chiamati ad andare oltre la prudenza di chi non vuole apparire come qualcosa che non è.
Il popolo israeliano, più di ogni cosa, sta testimoniando quanto la lacerazione della guerra rischi di diventare sempre più insanabile e tremenda.
Ma questo non basta più! Abbiamo esaurito la prudenza, abbiamo consumato ogni sdegno dinanzi alla violenza ed alle guerre.
Ribadirlo è perciò necessario. Affermare che la risposta al terrore non è la moltiplicazione del terrore. Questa scorciatoia ha solamente prodotto morte e distruzione. E non è la via per la quale i cristiani possono incamminarsi, né la strada con cui difendere il diritto dei popoli a vivere in pace.
Non lo sono stati i confini, non lo è la mancanza di iniziativa diplomatica, non lo è l’aumento delle spese militari e la corsa al riarmo.
Quel che sta accadendo a Gaza e in Ucraina dovrebbe ammonirci non sui rischi che corriamo, ma sull’annientamento che non vogliamo vedere.
Dovrebbe ammonire i Governi e la leadership dei Paesi europei innanzitutto. E deve tuttavia ricordare alle Chiese che nessun silenzio può giustificare il compromesso per il nostro quieto vivere.