Roma, 5 agosto 2024 – In Italia il fenomeno è ancora relativamente circoscritto e, in genere, nel vecchio continente ha iniziato a svilupparsi più tardi rispetto ad altri Paesi.
L’esperienza delle cosiddette “live church” cioè le Chiese online è comunque un fenomeno su cui riflettere. Esprime la ricerca di forme nuove di spiritualità e di adesione alla fede che entrino in risonanza con i tempi nei quali viviamo.
Permane, inutile negarlo, un pregiudizio di fondo, almeno da parte delle Chiese storiche, su queste forme religiose emergenti. E, al di la del giudizio che ciascuno e ciascuna può dare su tali iniziative, vale sempre e comunque la pena provare a capirle meglio, a conoscerle.
Non è infatti escluso che il prossimo futuro imponga, alla fine, di confrontarsi con queste esperienze.
Dagli USA con furore
Circa un quarto degli adulti statunitensi (27%) guarda regolarmente i servizi religiosi online o in TV. Si tratta di una antica abitudine, quella dei telepredicatori, che, scandali a parte, ha mietuto consensi negli Stati Uniti. Oggi, con le possibilità messe a disposizione della rete, l’offerta di servizi religiosi virtuali è letteralmente esplosa. Circa un terzo degli statunitensi partecipa fisicamente e con regolarità ai culti in presenza, secondo un sondaggio del Pew Research Center(1) condotto a novembre 2022. Il sondaggio è stato realizzato mentre la pandemia di coronavirus stava volgendo al termine, quindi fornisce un quadro molto interessante sul fenomeno.
I due pubblici, tuttavia, in parte non marginale sovrappongono coloro che frequentano abitualmente e di persona le Chiese e coloro che aderiscono virtualmente alle stesse o ad altre Chiese. Infatti il 17% afferma di fare entrambe le cose. Inoltre quattro americani su dieci (43%) partecipano regolarmente alle funzioni religiose in un modo o nell’altro: di persona o tramite schermi. Una percentuale rimasta stabile anche nella fase pandemica.
Tuttavia nel 17% degli intervistati, che partecipano sia di persona ai culti sia virtualmente, vi è una chiara preferenza per la partecipazione di persona. Soltanto una persona su dieci preferisce i servizi virtuali e il 14% non ha preferenze.
Attenzione, però, qui si intende la partecipazione esclusiva. Permane il dato che una parte considerevole dei credenti statunitensi ritiene non vi sia alcuna incompatibilità tra la partecipazione ad una Chiesa “fisica” ed una “virtuale”. Infatti le frequenta entrambe.
Lo schermo come la panca?
L’indagine rileva inoltre che circa quattro adulti su dieci, che guardano regolarmente i servizi online o in TV (39%), affermano che la loro partecipazione virtuale è caratterizzata dal fare “le cose che normalmente farebbero se partecipassero di persona“. Pregare, rispondere ad alta voce alle sollecitazioni del pastore, cantare, etc… Nel complesso, il 25% degli spettatori virtuali afferma di sentirsi un partecipante attivo dei culti virtuali.
Inoltre, la maggior parte delle persone che frequentano i culti online, vede dei vantaggi in questa possibilità. In primo luogo la comodità e la praticità.
Vi è tuttavia un dato sociologico molto interessante che emerge dal sondaggio: i protestanti di tradizione storicamente afroamericana (32%) e i cattolici (31%) si dicono più attivamente partecipi nei servizi virtuali. Mentre gli evangelici genericamente intesi (18%) e i protestanti tradizionali di provenienza europea (20%) si sentono più coinvolti nelle attività in presenza. Ed ancora, nella dimensione virtuale gli spettatori abituali bianchi (18%) hanno meno probabilità di coloro che sono afroamericani o ispanici (33% ciascuno) di sentirsi più partecipi ai culti virtuali che in presenza.
Considerando le differenze per provenienza etnica, a parte l’affiliazione religiosa, circa tre quarti degli afroamericani (74%) e bianchi (73%) che guardano regolarmente i servizi online o in TV affermano di essere estremamente o molto soddisfatti dei sermoni che ascoltano. Una quota minore di adulti ispanici in questo gruppo esprime un alto livello di soddisfazione (60%). Generalmente vi è meno approvazione per la musica rispetto alla predicazione.
Il caso Keniota
Il fenomeno delle chiese virtuali in Kenya è emblematico e rappresenta un caso di studio interessante. Una sorta di “nuova frontiera della fede” (2). Le chiese virtuali stanno prendendo sempre più piede nel Paese e, addirittura, esistono ministeri esclusivamente online. Su piattaforme come TikTok, Facebook e app di messaggistica pensate ad hoc per raggiungere i fedeli. Uno dei principali esponenti di questo movimento è Jeffter Wekesa, un predicatore di 31 anni che tiene sermoni notturni in diretta streaming dal suo appartamento di Nairobi.
Wekesa predica da solo nel suo soggiorno. Di fronte una webcam e uno smartphone che trasmettono contemporaneamente, e da angolazioni diverse, sulle varie piattaforme social. Nonostante l’assenza di una comunità fisica, Wekesa prova e pare riesca a creare un’atmosfera coinvolgente. Con un uso sapiente della tecnica, delle luci, della musica gospel in sottofondo. Il suo seguito online è considerevole: circa 500 persone seguono regolarmente i suoi sermoni in diretta. La notte.
Il contenuto dei sermoni di Wekesa si concentra su temi di speranza e prosperità. Prega per il successo dei suoi “follower”, risponde con messaggi dal sapore “profetico” alle interazioni che riceve, offre ascolto spirituale individuale a distanza. Al termine di ogni sessione, che può durare anche tre ore, invita i fedeli a fare offerte attraverso vari metodi di pagamento digitale. Così raccoglie una colletta che è anche una sorta di stipendio personale che varia tra 700 e 2200 euro al mese. In Kenya siamo al di sopra della media dei redditi nazionali.
Ma Wekesa non è un caso isolato. In Kenya, Paese con un altissimo tasso di utilizzo dei social media, sono sempre più numerosi i predicatori che operano esclusivamente online. Questi ministeri virtuali stanno attirando soprattutto i giovani, offrendo un’alternativa alle chiese tradizionali in un momento di crescente disaffezione verso le istituzioni religiose convenzionali.
Il contesto sociale ed economico del Kenya gioca un ruolo cruciale in questa tendenza. Il paese sta attraversando una crisi del costo della vita, con elevati tassi di disoccupazione giovanile e diffusa povertà. In questo scenario, molti giovani cercano conforto e speranza nella religione, ma si sentono sempre meno attratti dalle chiese fisiche. Le chiese virtuali offrono un’alternativa accessibile e immediata, in linea con le abitudini digitali di una popolazione giovane e iperconnessa.
Fede facile e fragile?
Tuttavia, questo fenomeno solleva anche numerose domande. Molti di questi predicatori virtuali non hanno alcuna formazione teologica di base e operano in un ambiente sostanzialmente non regolamentato. Inoltre, il dibattito in corso si chiede se queste chiese online possano davvero offrire lo stesso senso di comunione e legame interpersonale che caratterizza le congregazioni tradizionali.
La storia personale di Wekesa illustra bene il percorso che porta molti a diventare predicatori virtuali. Cresciuto in condizioni difficili nelle baraccopoli di Nairobi, ha sperimentato diversi fallimenti nel tentativo di fondare chiese fisiche. La svolta è arrivata quando ha scoperto le potenzialità delle piattaforme di social media per raggiungere un vasto pubblico. Partendo da una piccola chat su un’app chiamata Imo, ha gradualmente espanso la sua presenza online, fino a creare una vera e propria chiesa virtuale con migliaia di seguaci.
Altri predicatori virtuali adottano approcci diversi. Ed è questa una caratteristica non secondaria. Non esistono modelli standardizzati per la comunicazione virtuale. La mancanza di regolamentazione consente un’ampia gamma di sperimentazioni: da quelle più formali fino ad approcci molto informali. Con inquadrature in movimento e soggettive oppure con veri e propri studi di regia ben calibrati. Fino a raggiungere migliaia e migliaia di utenti/credenti, soprattutto giovani, su TikTok.
Ma anche le motivazioni per cui questi predicatori hanno iniziato ad impegnarsi variano. Alcuni sostengono di essere spinti principalmente dal desiderio di diffondere il Vangelo. Altri vedono in questo modello un’opportunità per raggiungere persone che altrimenti non frequenterebbero una chiesa fisica.
L’impatto di queste chiese virtuali sulla vita dei credenti, e quindi della società, è significativo. Molti seguaci riferiscono di aver trovato un senso di appartenenza e spiritualità che non avevano sperimentato nelle chiese tradizionali. Un modo per praticare la fede in un Paese dove è difficile, e anche pericoloso, frequentare liberamente chiese cristiane.
Critiche e apprezzamenti
Non mancano ovviamente critiche a questo modello. Alcuni leader religiosi tradizionali vedono le chiese virtuali come una risposta necessaria al calo di partecipazione nelle chiese fisiche. Altri avvertono che le chiese online rischiano di minare l’essenza stessa della comunità religiosa, privando i fedeli dell’importante aspetto della comunione fisica.
Il dibattito è aperto, ovviamente. E si fa sempre più partecipato dinanzi all’espansione di queste nuove forme di partecipazione religiosa.
Ma il tema non riguarda solo Kenya e USA: lo troviamo anche in Asia, Sudamerica e, naturalmente, nella patria del K-pop, la Korea. Certo, seppure ancora meno che altrove, anche in Europa. Qui le Chiese tradizionali in alcuni casi hanno espresso forti preoccupazioni sul fenomeno delle chiese virtuali, sottolineando l’importanza insostituibile delle interazioni fisiche nella vita cristiana.
Tuttavia e nonostante le critiche, il fenomeno delle chiese virtuali non sembra al momento destinato a diminuire. Anzi. La combinazione di fattori socio-economici, l’alta penetrazione di internet e social media, e la ricerca di nuove forme di spiritualità da parte dei giovani creano un terreno fertile per questi ministeri online.
Forse, più che percepirne l’esistenza esclusivamente come un fenomeno di pericolosa contrapposizione alla Chiesa tradizionale, si potrebbe compiere un passo di riflessione in più.
Cosa succede in Europa?
Il “vecchio continente”, infatti, risente ancora di una certa presa delle proprie radici cristiane tradizionali sulle persone. Almeno su quelle che frequentano le Chiese. E se, da un lato, la dimensione di partecipazione fisica si riduce, dall’altro la secolarizzazione non ha impedito a queste nuove forme di cristianesimo “virtuale” di emergere e iniziare a strutturarsi.
In un articolo del giugno 2023, Elisabeth Tveito Johnsen dell’Università di Oslo, evidenziava il paradosso delle “chiese maggioritarie in Europa” che, nonostante siano “considerate istituzioni religiose potenti“, risultino in realtà “deboli“.
Per la professoressa di teologia pratica, la pandemia da Covid-19 è stata una situazione in cui le chiese e altre istituzioni religiose sono state “«costrette» a utilizzare i media digitali come arena primaria di sensibilizzazione“.
In particolare Tveito Johnsen ha esaminato come le principali chiese, di ispirazione luterana, di Svezia, Danimarca e Norvegia hanno riorganizzato le loro identità virtuali dinanzi alla pandemia ed alle necessità di un uso massiccio del web per comunicare ai fedeli.
Da un lato è emerso un uso dei mezzi virtuali come una estensione delle esistenti pratiche religiose. Dall’altro, come nel caso della Chiesa evangelica luterana in Danimarca, si è invece preferito un approccio più informale, più confidenziale. In ogni caso si è provato ad introdurre contenuti e linguaggi nuovi, talvolta più creativi, il cui scopo era quello di proiettare in uno spazio ancora largamente inesplorato l’immagine tradizionale della Chiesa.
Tuttavia, oltre il covid-19, non tutte le Chiese storiche hanno confermato e proseguito negli investimenti per le attività online. In molti casi, il progressivo venire meno delle chiusure dovute ai lockdown, ha riportato la situazione al modello pre-2020. Mentre, tuttavia, gli effetti delle chiusure, degli isolamenti sulle persone continuavano e continuano a produrre i loro effetti psicologici, sociali, spirituali.
Anche sotto il profilo dello studio e comprensione degli effetti che il Covid-19 ha prodotto sulla dimensione spirituale delle persone, si sono registrati dei rallentamenti. E rimane tuttora poco esplorato il ricorso alla pratica spirituale online che pure emerge in Paesi come Germania, Spagna, Francia e Italia.
Non ci troviamo ancora dinanzi a numeri come quelli statunitensi, kenioti o koreani. Ma alla necessità di spazi virtuali dedicati alla fede fa da controcanto la partecipazione fisica, in Chiese un tempo nazionali e popolose, sempre più ridotta.
La buona notizia è che l’interesse per il cristianesimo non si è spento. Vi è tra le persone, e tra i giovani, la ricerca di una spiritualità nuova che non è detto sia incompatibile col messaggio di Cristo.
Il punto interessante riguarda le forme, i modelli, il linguaggio con cui questo messaggio si presenta nella società di oggi.
Che lo si voglia o meno, a seguito dei cambiamenti tecnologici con i quali ci confrontiamo ogni giorno, ma non soltanto, si sono prodotte nuove forme di comunicazione, di interazione, di ricerca e di scoperta o riscoperta.
Dalla capacità che le Chiese avranno di ascoltare, leggere e interpretare questi cambiamenti; di agire dinanzi ad essi dipenderà il loro futuro nella società secolarizzata europea.
Glossario e approfondimenti
(1) Il Pew Research Center (noto anche semplicemente come Pew) è un think tank statunitense apartitico con sede a Washington, DC. Fornisce informazioni su questioni sociali , opinione pubblica e tendenze demografiche che modellano gli Stati Uniti e il mondo. Conduce anche sondaggi di opinione pubblica, ricerche demografiche, ricerche basate su sondaggi campionari casuali e sondaggi basati su panel, analisi dei contenuti dei media e altre ricerche empiriche in scienze sociali.
(2) Reportage sul caso keniota, qui (in inglese).
Copertina, immagine generata dall'AI.