Roma, 4 giugno 2024 – Due fratelli. Caino e Abele sono tra i primi protagonisti dei racconti biblici. E sono presenti anche nel Corano.
Benché le vicende narrate descrivano lo stesso epilogo, l’uccisione di Abele, i due testi hanno un approccio molto diverso alla storia.
Nella Bibbia Abele è vittima muta. I dialoghi sono tra Dio e Caino. Nel Corano, invece, non c’è il dialogo con Allah ma c’è uno scambio tra i fratelli figli di Adamo.
Alcuni giorni fa, ripreso poi anche dal settimanale Riforma e dall’agenzia NEV, un gruppo di evangelici italiani, appartenenti a diverse denominazioni protestanti, ha diffuso un appello su quanto sta accadendo a Gaza.
Un appello che si conclude invocando l’abbandono della imparzialità ed equidistanza con cui le Chiese protestanti hanno finora affrontato il dramma mediorientale e la denuncia di una sorta di sionismo cristiano che porterebbe alla promozione del “dominio di Israele su tutta la Palestina storica a motivo delle antiche promesse di elezione”.
Come luterani, in questi mesi, non abbiamo invocato né imparzialità, né equidistanza. Tanto in Palestina quanto, per citare un altro dramma cui ci siamo forse più facilmente abituati, in Ucraina.
È un bene che le Chiese tornino a discutere, anche in forme e modi nuovi, il tema della guerra e della pace. Così come riteniamo emblematico si sia dovuti arrivare al dramma dei conflitti dietro la porta di casa per uscire fuori dalle bolle ecclesiastiche in cui ci si è rifugiati.
Se tanta fatica facciamo a prendere parola dinanzi alla violenza del mondo non possiamo attribuirlo alla necessità di silenzio.
Infatti non poche volte le Chiese parlano. E parlano tanto, così tanto che pochi rimangono ad ascoltare. Perché in quelle parole più che la sfida profetica c’è l’esigenza del quieto vivere.
Come luterani avvertiamo invece l’urgenza della Parola che ci inquieta, che, come nel 1517, ci sfida ogni giorno ed ogni giorno esige fedeltà e coraggio.
D’altra parte la richiesta di prendere posizione non può essere declinata nel modo in cui oggi è spesso intesa: cioè come l’adesione ad una tifoseria opposta ad altre.
Il coraggio del prender parte non può significare parzialità nel senso di un posizionamento ideologico a favore di uno e contro qualcun altro o altra.
Intendiamo semmai la chiamata ad essere partigiani della Parola più che tifosi. L’unica parte cui possiamo e vogliamo aderire.
E che ci conduce ad aprire il confronto, ad alimentarlo, ad invocarlo nella consapevolezza che le Chiese si spengono non solo perché non hanno molto da dire, ma soprattutto perché hanno sempre meno praticato l’ascolto.
Intervenire, quindi, per denunciare i crimini umanitari che emergono nel conflitto in Palestina. A partire dal blocco imposto da Israele su Gaza quale rifiuto di ogni blocco che, nel mondo, determina l’affamare milioni di esseri umani in nome di ritorsioni politiche, militari, sociali.
Certo, come Tullio Vinay anche noi siamo dalla parte di Abele. Lo abbiamo già chiaramente dichiarato in tempi non sospetti. Il punto tuttavia è che l’Abele di cui parla Vinay integra l’uomo silente della Genesi con quello parlante del Corano. L’Abele universale dice: se alzerai la mano contro di me per uccidermi, io non l’alzerò su di te.
Questa dichiarazione spezza il circolo della violenza, dell’odio che ne genera di nuovo, della morte che alimenta morte. Ma, al tempo stesso, ci chiede coerenza. La consapevolezza che il secondo successivo a questa dichiarazione il nostro impegno dovrà manifestarsi.