Roma, 30 maggio 2023 – Conclusa la tornata delle elezioni amministrative, come spesso accade, la riflessione è orientata sui risultati. Eletti, elette, esclusi ed escluse.
C’è un dato, tuttavia, che, pur destando preoccupazione, rimane sempre sullo sfondo. Del dibattito politico, civico e sociale: l’affluenza.
Il calo è stato definito “netto” da diversi osservatori e, in alcuni casi, la diserzione del voto determina l’elezione di rappresentanze di sparute minoranze.
Questa è una buona o una cattiva notizia per le Chiese protestanti in Italia, ovvero per quelle realtà che hanno fatto della loro identità di minoranza un motivo di orgoglio?
L’invito del profeta Geremia a cercare il bene della città perché da questo bene dipenderebbe il nostro bene come è oggi inteso nelle nostre piccole, sempre più piccole Comunità?
E la riduzione della partecipazione al gioco democratico è espressione di un diffuso disimpegno, di un esasperato (ed esasperante) individualismo; oppure è la logica conseguenza del ritenere che il bene della “città” non transiti più dalla partecipazione alla costruzione della democrazia?
Le forme e gli strumenti con cui le democrazie occidentali esercitano il loro ruolo sono capaci di rispondere alle sfide della modernità? E gli spazi dell’agire democratico sono ancora adeguati a raccogliere queste sfide?
Ed ancora: «Il mondo, così, è diventato una grande incognita, un grande rischio, un permanente pericolo. Le nostre società sono vulnerabili, anche sul piano psicologico. I nervi sono a fior di pelle. […] Vivere, per gli esseri umani come per le loro società, significa progettare ciò che ancora non è e si vuole che sia. Sopravvivere significa invece dibattersi per non farsi sopraffare dall’onda che minaccia di sommergerci. […] La politica, di fronte alla necessità, è cieca. Si è trasformata in convulsa agitazione di tecnici della sopravvivenza. Non stupisce affatto che i governi politici siano da tempo soppiantati da governi tecnici, sia pure sotto mascherate politiche. I luoghi prediletti dai tecnici sono gli organi esecutivi. Questo nostro, infatti, è un tempo esecutivo. Nel tempo esecutivo, molti si agitano, ma la tecnica è al servizio della conservazione giorno per giorno, anche se l’agitazione può dare l’impressione di voler dischiudere chissà quale futuro» (Moscacieca, Gustavo Zagrebelsky, Ed. Laterza, 2015).
Ernst Jünger sosteneva che la tecnologia è la vera metafisica del XX secolo. E Jacques Ellul, teologo protestante e sociologo francese, scriveva: «Il termine tecnica […] non significa macchine, tecnologia o questa o quella procedura per raggiungere un fine. Nella nostra società tecnologica, la tecnica è l’insieme dei metodi razionalmente raggiunti e di assoluta efficienza (per un determinato stadio di sviluppo) in ogni campo dell’attività umana. Le sue caratteristiche sono nuove; la tecnica del presente non ha misure comuni con quella del passato» (The technological society, Jacques Ellul, Vintage Book, USA 1964).
L’interconnessione tra società e tecnica, parafrasando proprio Ellul, ha l’obiettivo di produrre una “civiltà totale apparentemente indistruttibile”.
E noi? Noi luterani? Noi come chiese, come ci poniamo di fronte ad una società che si affanna per rendersi apparentemente indistruttibile?
La fede rimane la variabile estranea a questo processo. La società tecnologica rischia di non avere più fede: non solo nelle religioni, ma anche nelle idee, nelle speranze, in quegli ideali che, contaminandosi tra loro, avevano animato il secolo scorso.
E questa mancanza di “fede” deve importarci. Ci troviamo oggi dinanzi ad una nuova scelta che mette in discussione le strutture democratiche così come le abbiamo conosciute. E rischia di spingerci, anche come chiese, verso una semplificazione tecnica in cui la logica prevale sul dubbio, la risposta meccanica sui tempi della riflessione (e della preghiera), l’efficienza sulla fiducia nella ricerca e, quindi, nella possibilità di cambiamento.
Non possiamo disinteressarci del rischio che corrono le società nelle quali viviamo. O, se preferite, le città nelle quali “il Signore ci ha posti”.
La riduzione degli spazi di confronto e la sostituzione delle risposte chiuse e definitive alle domande aperte è una questione che deve importarci. La diminuzione di partecipazione non è quindi un problema che deve importarci sol perché ci ricorda le Chiese sempre più vuote. La spinta al disimpegno può semmai aiutarci a ripensare le forme dell’impegno, a considerare le variabili della fede come possibilità di condivisione, di riorganizzazione. Di ripensamento del nostro modo di essere e di agire (o di non agire), nel tempo presente.
La riduzione di partecipazione alla vita democratica è quindi un tema che non è distinto né distante dalle domande che ci riguardano come luterani. È il superamento di quella “secolarizzazione” che, in parte, aveva permesso alle Chiese di non estraniarsi dalla società e che oggi le rende partecipi dello straniamento dalla dimensione spirituale. Dimensione spirituale che, sfuggendo alla logica della società tecnica, vive una crisi della quale spesso cogliamo più le paure che le possibilità.
Siamo ancora chiamati alla ricerca del bene della città, quindi? Probabilmente si se per bene oggi intendiamo il coraggio di guardare oltre la preoccupazione per la nostra esistenza, per partecipare alla ricerca di una rinnovata ed efficace testimonianza.
(CELI/G.Fiusco)