Roma, 3 dicembre 2024 – Dentro il carcere femminile di Jyderup, in Danimarca, si incontrano storie. Come in molte carceri nel mondo.
L’idea che possiamo farci in Italia delle carceri danesi, rischia di portarci fuori strada. In ogni luogo di detenzione si consumano drammi e dolori.
C’è quindi un tratto che accomuna i carcerati di tutto il mondo: la privazione della libertà. Ed una ricerca che può aiutare chi è senza libertà: la ricerca di redenzione.
Questa ricerca è al centro del documentario Kvindefængslet (carcere femminile) dell’emittente danese DR. Un documentario che offre uno sguardo intimo sulla vita delle detenute: mettendo in luce non solo la durezza delle loro vite, ma anche le loro nascoste vulnerabilità.
In questo racconto compare la cappellana luterana del carcere, Mette Kruse Andersen. Un ruolo che, in Italia, è spesso identificato con un prete cattolico e più raramente, molto raramente con un pastore o una pastora protestante.
Un riflesso della nostra umanità condivisa
Dal 2021, il carcere di Jyderup è riservato esclusivamente a donne. Ciononostante i temi che vengono affrontati nei colloqui in carcere sono simili, indipendentemente dal genere di chi è in prigione.
“Dietro le apparenze – afferma Mette – siamo tutti uguali”. Con il desiderio di “essere visti, ascoltati, rispettati e amati.” La sensazione di non essere “sufficientemente umani” è comune tra i detenuti: aggravata dal giudizio sociale e dalla percezione di fallimento personale che la prigionia comporta.
La pastora luterana, quindi, preferisce adottare un approccio controintuitivo. Invece di negare la sensazione di inadeguatezza, la accoglie. “Dire a qualcuno che si sente inutile ‘No, non è vero’ può sembrare consolatorio – spiega – ed il risultato spesso suona falso“.
Invece, accettando questa realtà si possono guidare le detenute verso un messaggio di speranza: “Non sei abbastanza, ma Dio ti ama comunque” . Questo riconoscimento apre uno spazio di libertà, dove le donne possono abbassare le difese e affrontare la loro vulnerabilità.
La cura spirituale: essere presenti nella sofferenza
Funziona così, a Jyderup. Le detenute che desiderano incontrare la cappellana devono compilare una richiesta. In alcuni casi il personale del carcere o i professionisti sanitari suggeriscono un incontro. Mette Kruse Andersen si sforza di accompagnare le detenute senza cercare di “salvarle” dal loro dolore.
“La mia missione non è allontanarle dalla sofferenza, ma viverla insieme” dice. Molte donne hanno sperimentato l’isolamento emotivo, sentendo che nessuno poteva né comprendere e quindi sopportare il loro dolore. Con questo approccio si offre loro uno spazio sicuro dove condividere e alleggerire quel peso.
La chiesa come spazio di libertà e accoglienza
La cappella del carcere, situata nell’area a regime aperto, rappresenta quindi un’oasi di libertà. L’impegno della Chiesa luterana è fare in modo che questo sia uno spazio aperto e protetto: qui si tengono funzioni religiose, canti comunitari e altri incontri, in un ambiente privo di sorveglianza.
“La chiesa è uno dei pochi luoghi non monitorati” spiega Mette Kruse Andersen. “Questo permette alle detenute di rilassarsi e sentirsi semplicemente umane“. La libertà di essere sé stesse in questo spazio contribuisce a creare un senso di appartenenza e accettazione.
Un’intensità unica dentro le mura del carcere
Il lavoro pastorale nel carcere, sebbene simile a quello al di fuori, è tuttavia più intenso. “In un carcere, le storie traumatiche sono concentrate“.
Molte detenute hanno alle spalle infanzie difficili, esperienze di violenza, dipendenze o disturbi psicologici. La chiesa offre loro un messaggio di amore incondizionato per ciò che sono, in contrasto con la logica giudiziaria che si focalizza su ciò quel che hanno fatto.
Il messaggio di Cristo che ci ama per ciò che siamo e nonostante quel che abbiamo fatto, non nega la responsabilità per i crimini commessi. Ma la missione della Chiesa non è sostituirsi ai giudizi per emettere sentenze.
Un messaggio universale di speranza
Il lavoro della cappellania carceraria è indispensabile. Ed è un mettersi alla ricerca degli ultimi proprio dove questi ultimi sono più visibili anche se sconosciuti: il carcere.
Dietrich Bonhoeffer ammoniva “solo il dio sofferente può aiutare”. Nella celebre poesia del luglio 1944, Cristiani e Gentili, pochi mesi prima di essere giustiziato, così scriveva:
Le persone si rivolgono a Dio nella loro angoscia,
chiedono aiuto, chiedono felicità e pane
salvezza dalla malattia, dalla colpa e dalla morte.
Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani (gentili).
Le persone vanno a Dio nel bisogno,
lo trovano povero, insultato, senza tetto né pane,
lo vedono inghiottito dal peccato, dalla debolezza e dalla morte.
I cristiani stanno con Dio nelle Sue sofferenze.
Dio va incontro a tutti gli uomini nel bisogno,
sazia il corpo e l’anima con il Suo pane,
muore di croce per cristiani e pagani
e perdona entrambi.