Roma, 9 agosto 2024 – Affrontare il tema del fine vita in una estate calda e ad agosto non è certo il massimo delle opportunità possibili.
Temi così rilevanti, che intrecciano piani diversi e talvolta divergenti tra loro, giudirico, etico, teologico, meriterebbero una attenzione e rilevanza più ampia possibile.
L’estate e le vicende internazionali che caratterizzano il momento storico nel quale viviamo, rischiano di rendere un tema così rilevante, il fine vita appunto, marginale.
Eppure esso riguarda la storia di molte persone. Dei singoli e delle singole, ma anche delle famiglie, degli amici e amiche, di gruppi sociali che si trovano a dover far fronte a domande poste da condizioni mediche, terapeutiche, di salute che pongono l’esistenza davanti a scelte cruciali.
Un problema linguistico?
Nelle scorse ore il dibattito sul fine vita ha conquistato, ma solo, appunto, per poche ore, una sua centralità a seguito della presentazione al Pontefice cattolico romano, Francesco, di un glossario di 88 pagine edito dalla LEV dal titolo “Piccolo lessico del fine vita”.
Il documento, intanto, ribadisce alcune nette contrarietà da parte cattolica: al suicidio assistito ed all’eutanasia, innanzitutto. La difesa del diritto alla vita e, in questo si è riscontrata una novità, la rivalutazione dei “trattamenti non proporzionati” nella cura dei malati. Infine un auspicio: maggiore collaborazione tra Chiesa e politica sui temi del fine vita.
Pubblicato a tra la fine di giugno e l’inizio del luglio scorso, il glossario sembra essere stato scoperto giusto nelle ultime ore. Almeno dai quotidiani italiani.
Lo scopo del documento è quello di fornire indicazioni che trovano radici negli ultimi settant’anni di magistero dei Papi e della Chiesa cattolica romana. Uno scopo potremmo dire interno alla Chiesa cattolica.
Ma, ovviamente, nella società globalizzata non c’è nulla di più globale se non le parole dette all’interno di ogni Organizzazione: sociale, politica, religiosa.
Il vademecum cattolico romano parte dalle parole. Dal loro uso, e talvolta abuso. Dal significato che viene attribuito ad esse e da quello che la Chiesa cattolica attribuisce a parole come, appunto, fine vita, suicidio assistito, eutanasia.
Un problema che – tuttavia – non è solamente né meramente linguistico. Le parole racchiudono significati e i significati riflessioni di natura teologica e dottrinale.
La necessità di precisare il senso di queste parole, spesso divisive, che pongono in contrapposizione le religioni con le scelte politiche e legislative, ha certamente un senso. Aggiornare le spiegazioni su temi antichi ma anche modernissimi, nel confronto tra scienza e fede, può forse contribuire a rendere più comprensibile la posta in gioco.
Ovviamente il tema, anzi i temi, vanno ben oltre l’aspetto linguistico. Affondano cioè le radici sul modello di società che si intende costruire a partire dal significato della vita e della morte.
Facili entusiasmi e realtà in cammino
Molti quotidiani hanno esultato, leggendo nel vademecum della Pontificia Accademia per la Vita, un superamento di antiche rigidità da parte della Chiesa cattolica romana.
Ci ha pensato lo stesso Mons. Vincenzo Paglia presidente della Pontificia Accademia per la Vita, in queste stesse ore, a smorzare gli entusiasmi.
In una intervista a Vatican News il prelato cattolico romano precisa: La Chiesa ribadisce la sua assoluta contrarietà verso qualsiasi forma di eutanasia e suicidio assistito. Ed è anche la mia convinzione, anche se qualcuno vuole farmi dire il contrario. Ma anche la Chiesa invita a riflettere su quanto l’ostinazione irragionevole (accanimento terapeutico) non sia espressione di una medicina e di cure davvero a misura e a favore della persona malata.
La sostanza dei fatti è che questi temi sono in divenire. Non possono essere cristallizzati in posizioni non disponibili al confronto.
Ed è forse questa la domanda che emerge dal cammino compiuto dalla Chiesa cattolica romana. Essere cioè giunta alla conclusione di quella che Paglia vede come impegno al raggiungimento del “più alto consenso comune possibile” “che tiene contro in modo rispettoso delle diverse sensibilità e credi religiosi“.
Pragmatismo protestante
Le Comunione delle Chiese Protestanti Europee (CPCE/GEKE), di cui la CELI fa parte, fin dal 2008 hanno ufficializzato un dibattito che, almeno a livello locale, nei diversi Paesi, si svolgeva già da qualche tempo. E, nel 2011, la Comunione esitò un primo documento sul tema del fine vita. Ribadendo già allora, più di 13 anni fa, la necessità di considerare chiusa la riflessione sul fine vita.
La CPCE, infatti, così precisava: le possibilità offerte dalla medicina continueranno ad ampliarsi negli anni a venire e le leggi nazionali dei vari Paesi europei continueranno ad evolversi. Queste linee guida non intendono quindi fornire una risposta definitiva a tutte le domande che verranno sollevate in futuro.
Quel documento, dal titolo emblematico “un tempo per vivere, un tempo per morire”, pose le basi perché le diverse Chiese luterane, protestanti, anglicane, parte della Comunione, lo ampliassero e arricchissero delle rispettive considerazioni.
Una questione di dignità
Il documento della Comunione (qui in inglese) affermava che “la dignità fondamentale della vita umana non si basa sulla sua funzionalità, utilità o indipendenza. Non è sminuita dalla mancanza di produttività, né dalla sensazione che la vita non offra più alcun piacere. Una vita colpita da gravi malattie o disabilità, una vita totalmente dipendente dalle cure e dall’assistenza altrui – magari per tutta la sua durata – non contraddice o diminuisce in alcun modo la dignità fondamentale di ogni vita umana; non rappresenta una forma non autentica o indegna di vita umana“.
Questa concezione della dignità umana informa la nostra comprensione della responsabilità per la vita implicando, in primo luogo, “che la vita umana ha il diritto fondamentale di essere protetta da danni, violazioni e distruzione, come stabilito dal quinto comandamento: non uccidere“.
Al tempo stesso per i cristiani vi è una implicita responsabilità di prendersi cura del prossimo. Questa responsabilità comprende non solo un atteggiamento attento e una disposizione compassionevole verso il prossimo, ma anche atti concreti di aiuto e di sostegno, soprattutto verso i più vulnerabili: i poveri, le vedove, gli emarginati, coloro che troppo facilmente vengono proiettati ai margini della società e della comunità umana.
Per i cristiani, le cristiane prendersi cura di chi soffre, ed è in condizioni nelle quali non è possibile un ripristino delle condizioni di salute e funzionamento, è un dovere derivante dalla morale cristiana.
Perciò in circostanze specifiche, interrompere o non iniziare un trattamento di prolungamento della vita può essere non solo lecito, ma addirittura obbligatorio come elemento di cura compassionevole per un paziente gravemente malato o terminale.
Fine vita, complessità e necessità
Non può essere risolto facilmente, per nessuna Chiesa, quanto complesso e articolato sia il tema. Per le Chiese protestanti in particolare, l’eutanasia è profondamente problematica. Innanzitutto dal punto di vista etico: va contro alcune delle più profonde convinzioni morali, non solo di una tradizione specificamente cristiana. Ma anche sotto il profilo morale, vale a dire l’ideale di non togliere la vita innocente e il dovere di proteggere la vita, specialmente quella vulnerabile e debole.
È difficile perciò conciliare l’eutanasia con la convinzione e l’impegno, tra i più essenziali della tradizione cristiana, che la dignità fondamentale e inalienabile della vita umana non risiede nella sua capacità di determinarsi e di agire autonomamente, quanto nell’amore creativo e giustificante che gli esseri umani ricevono da Dio in Cristo.
Esiste una tendenza all’individualizzazione della sofferenza che riduce i margini di solidarietà sociale alla base del dibattito, ad esempio, sull’eutanasia.
Una richiesta di maggiore supporto medico verso chi soffre è una parte del problema. Tanto più in sistemi sanitari sempre più ridotti nella capacità di intervento e capillarità territoriale. L’altra parte del problema, che è rilevante per le Chiese, riguarda la solitudine di chi si avvia alla morte.
Le chiese membro della Comunione ritengono perciò fondamentale assicurare il sostegno e la protezione dei diritti dei malati terminali e dei morenti. Questi diritti includono sia il diritto di vivere fino alla fine che il diritto di rifiutare ulteriori trattamenti.
Una prospettiva cristiana, una prospettiva luterana
Nell’aprile del 2016, aggiornato poi al 2020, il Sinodo della Chiesa Evangelica Luterana in Italia (CELI) approvava un “vademecum per il fine vita da una prospettiva cristiana”.
La Commissione sinodale incaricata della stesura del vademecum volle porre al centro del proprio lavoro il riferimento al Salmo 90, “Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio.”
La morte di una persona non si può programmare. L’esperienza mostra che neanche attraverso le direttive anticipate di trattamento è possibile regolamentare tutti gli aspetti. Per questo è importante ricordare che nella fase di fine vita sono sempre coinvolte altre persone: familiari, amici, amiche, operatori di cura, medici, pastori e pastore. L‘autodeterminazione e la cura si integrano e si condizionano reciprocamente nell’ultima fase della vita. Ciò può avvenire nella reciproca, possibilmente cresciuta fiducia delle persone coinvolte e nell’incondizionato rispetto della dignità della vita.
Per i luterani è tuttavia importante che il dibattito sul fine vita prosegua arricchendosi di nuove riflessioni. Affinché anche l’Italia possa al più presto dotarsi di norme chiare a tutela dei diritti di chi affronta la fase finale della propria esistenza.
Al momento, infatti, la mancanza di un quadro normativo peculiare si traduce in una grave ingiustizia. Che lascia nella solitudine chiunque si trovi ad affrontare una decisione così dura e difficile.
Perciò e in ogni caso il dibattito merita una adeguata attenzione della politica e, a questo scopo, è importante che le Chiese esprimano la loro riflessione. Una riflessione che, come cristiani e cristiane, continua a richiamarci al dovere di non abbandonare nessuno in situazioni di solitudine, fuga, disperazione.