Roma, 16 maggio 2024 – Il 17 maggio è la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. (IDAHOBIT)
Quest’anno l’appuntamento compirà 20 anni. Molti Paesi, nel mondo, hanno realizzato passi coraggiosi nel riconoscere i diritti delle persone. Ma sono anche evidenti i passi indietro che in questi anni si sono ripetuti.
Così come la sordità di alcuni Governi, nel mondo, che, alla mancanza di volontà per riconoscere diritti fondamentali aggiungono un accanimento speciale contro i nuovi diritti.
Tuttavia il tema, nella sua complessità, ci spinge spesso a considerare, dietro a questi appuntamenti, sigle, definizioni, ci siano entità astratte.
Nella definizione di giornate e scadenze c’è un rischio: quello di definire, ghettizzandole, le persone.
Ancora, nel Sinodo del 2021, la Chiesa Evangelica Luterana in Italia rilevava che “sebbene i diritti delle minoranze siano stati sanciti da tempo, i pregiudizi e la discriminazione delle persone LGBTQIA+ sono purtroppo ancora fortemente radicati nelle opinioni di molti”.
L’impegno della CELI, quindi e ancora in questo ambito, ha uno scopo ben preciso: “contribuire a una società più giusta” nella quale la CELI “ritiene opportuno che tutt* collaborino per abbattere pregiudizi, prevaricazioni, soprusi e negligenze nei confronti di donne, uomini e persone non binarie, riconoscendo il dono di ogni persona e il suo valore”.
In questo impegno c’è una consapevolezza spesso difficile da dichiarare ed accettare: il pericolo del “noi e loro” è concreto. Tanto più nelle Chiese, lo abbiamo letto recentemente nella dichiarazione vaticana “dignitas infinita”. Da un lato la richiesta di “decriminalizzare l’omosessualità”, dall’altro la necessità di condannare l’”ideologia gender”.
Ed il protestantesimo vive dell’effetto speculare. Da un lato molte delle Chiese storiche, decisamente aperte al dialogo; dall’altro l’evangelismo più carismatico in alcuni casi apertamente e violentemente contrario.
Appare evidente che l’argomento rischia di subire alterne strumentalizzazioni. Per le religioni il tema dell’omosessualità e, più in generale, quello delle persone di un genere diverso o di nessun genere, è il tramite per inserirsi in una qualche maniera nella contemporaneità.
Partecipare a questo dibattito consente infatti alle Chiese di uscire fuori dai seminari religiosi. O dalle sempre più vuote aule delle facoltà teologiche e presentarsi al pubblico “mainstream” cercando, in una qualche maniera, di scuoterlo.
Un compito non facile e in alcuni casi sinceramente espressione dell’impegno evangelico a non lasciare alle “pietre” il compito di parlare.
Tuttavia a trionfare sembra essere sempre la cornice e non il contenuto; il contorno e non la sostanza.
Come Chiese siamo forse oggi chiamate a superare, in maniera risoluta, un modello prescrivente. Che crea prescrizioni, amministrative e morali, su categorie peraltro appartenenti alla sfera dell’umano tanto nel passato quanto nel presente.
Nei secoli si è consolidata l’idea di uno spazio spirituale, definito dalla religione, nel quale si sta per l’osservazione di procedure e adempimenti cultuali.
Non è più così. E non lo è già da alcuni anni. Perciò bisogna rendersi oggi conto che lo spirito di dio, nel soffiare dove vuole, ci attraversa. E ci spinge verso una decisa e visibile accoglienza e reciprocità.
Non a caso Martin Lutero ha posto il tema della libertà del cristiano tra quelli centrali della riflessione della Chiesa.
Tale libertà per Lutero non è né può essere una proprietà dell’essere umano. Ma è frutto della liberazione operata dalla grazia e l’effetto della potenza trasformatrice della fede in cui la persona è soggetto nella libertà. E questa libertà trova il suo compimento nel rapporto di alterità con Dio.
Il paradosso umano è che noi scopriamo la nostra identità proprio quando siamo sradicati da noi stessi per vivere in funzione dell’”altro/a” da noi.
In questo essere sradicati, vivendo nel rapporto di alterità con Dio, di “servi di Dio”, scopriamo la libertà incondizionata, non sottomessa alla necessità del possesso e possiamo così orientare il nostro agire guidati non dalla paura, né dalla necessità di stabilire il peccato altrui secondo le nostre categorie.
La Parola del Cristo ci sfida, quindi. E, tanto più noi le opponiamo resistenza, costringendola a giustificare la nostra intolleranza attraverso una pretestuosa quanto scorretta lettura del Pentateuco, tanto più essa ci sfida.
Non si tratta di ridefinire il peccato, ma di comprendere che siamo tutti peccatori nel senso che nessuno, nessuna può dispensare delle verità assolute e definitive sul prossimo: chiunque esso o essa sia.
L’annuncio evangelico oggi non sfugge alla complessità dei tempi, né deve cercare il facile riparo di una ortodossia dogmatica: cieca, sorda, capace solo di inveire contro chi sospettiamo di nuove e moderne forme di eresia.
Perciò in questo 17 maggio, la CELI vuol riaffermare quanto dichiarato nel Sinodo del 2021: