Roma, 15 luglio 2024 – In diretta. Accade tutto in diretta. A Butler, in Pennsylvania, partono degli spari. Il candidato Trump è ferito e viene subito coperto da diverse guardie del corpo. Sanguinante si rialza, emerge da quella corazza umana che lo avvolge, alza il pugno al cielo e incita la folla, i suoi tifosi a combattere.
Non è una novità, nelle campagne presidenziali USA, che atti così violenti si impongano nel dibattito pubblico e determinino le scelte democratiche. Abramo Lincoln (1865), James Garfield (1881), William McKinley (1901).
Ma è l’uccisione di John Kennedy, il 22 novembre del 1963, che irrompe sulla scena del mondo e dell’opinione pubblica non solo statunitense.
Cinque anni dopo, il 5 giugno del 1968, è la volta del fratello Robert Francis Kennedy nel bel mezzo di una trionfale campagna presidenziale. Fino al 30 marzo 1981, dopo appena due mesi dall’elezione, con il tentativo di uccisione di Ronald Reagan.
E poi ci sono i presidenti statunitensi che, proprio come Trump, sono sfuggiti per un pelo alla morte violenta: Franklin Delano Roosevelt, Harry Truman, Theodore Roosevelt e Gerald Ford.
Una fede violenta
Le campagne elettorali si sono sempre più orientate dal piano politico a quello dello scontro. Verbale, talvolta fisico, soprattutto culturale.
Già perché la violenza che permea la contrapposizione tra visioni e modelli di società non è l’improvviso risultato di qualcosa di inaspettato.
È semmai la drammatica conseguenza dell’irrompere nel linguaggio politico di un genere letterario biblico, l’apocalittica.
Lo scopo della nuova narrazione politica non è quello di scardinare il sistema per innovarlo, ma in nome della conservazione di quel patrimonio culturale, ideologico, sociale ricostruire quel “mondo nuovo” dei valori antichi che l’egemonia “liberal” ha corrotto.
Il protagonismo delle Chiese nelle campagne elettorali statunitensi non è nuovo. Da mesi – se non anni – Donald Trump ha vieppiù permeato la sua campagna elettorale di elementi cristiani. Ed il sostegno che riceve dagli evangelici e cristiani conservatori è solido.
Poco più di un mese fa, a Dayton nell’Ohio, l’arrivo del candidato repubblicano veniva accolto al grido di “Trump sostiene Gesù, e senza Gesù l’America cadrà”.
Dalle magliette ai cappellini che dal marzo scorso circolano tra i fan di Trump si può candidamente leggere: “Gesù è il mio salvatore, Trump è il mio presidente”, “Dio, armi e Trump”.
Le chiese come tifoserie
Secondo AP VoteCast , 8 cristiani evangelici bianchi su 10 hanno sostenuto Trump nel 2020. Una percentuale simile lo aveva già sostenuto nel 2016. Ed oggi, dinanzi ad una nuova campagna, quel sostegno è rimasto pressoché immutato.
Mentre guardiamo con preoccupazione a quel che succede negli USA (e se non lo facciamo dovremmo farlo), convinti che le frange evangeliche più estreme si siano radicalizzate a destra, in Venezuela succede il contrario.
Nel Paese sudamericano, infatti, è in pieno svolgimento la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 28 luglio.
Nicolas Maduro cerca più che mai l’approvazione degli evangelici in cambio di varie concessioni. Negli ultimi otto anni, una persistente crisi economica e sociale ha costretto milioni di venezuelani a lasciare il Paese sudamericano. Gli effetti di questa instabilità persistono ancora oggi e perciò contribuiscono ad un certo indebolimento del presidente uscente.
Per questo Maduro ha cercato di avvicinarsi ad un settore sociale che, in larga misura, fino a ieri gli era stato avversario: i cristiani evangelici.
Attualmente si stima che gli evangelici rappresentino il 30% dei venezuelani. Tradizionalmente equamente divisi tra chavismo e opposizione, la situazione è tuttavia cambiata negli ultimi anni.
La diffidenza degli evangelici venezuelani per la politica si è trasformata oggi in attivismo. Inizialmente questo attivismo era mutuato dall’esempio del conservatorismo dei leader evangelici degli Stati Uniti. Oggi non è più così. O, meglio, non è più soltanto questo.
In Venezuela la maggior parte degli evangelici è oggi convinta, a torto o a ragione, che vi sia una convergenza tra cristianesimo e socialismo: la ricerca del beneficio di coloro che ne hanno più bisogno. La teologia della liberazione ha in parte contribuito ad evitare le derive cui assistiamo guardando agli USA restituendo una posizione originale e insolita, dato che la maggior parte delle chiese pentecostali e neo-pentecostali in paesi come Guatemala, El Salvador e Brasile si sono allineate con il conservatorismo stile USA. Fortemente radicalizzate contro la cosiddetta “ideologia di genere” nelle scuole o la liberalizzazione dell’aborto.
In Brasile, queste realtà non sono rimaste certo estranee al successo elettorale di Jair Bolsonaro nel 2018. Si pensi, ad esempio, alla gigantesca Chiesa Universale del Regno di Dio (l’acronimo in portoghese è IURD) che, nel 2022, ha addirittura pubblicato un opuscolo in cui spiegava le ragioni per cui “i cristiani non dovrebbero votare per la sinistra”.
Laboratorio di fede, incubatore di speranza
È complicato trarsi fuori da questo schema così polarizzato. Al fenomeno della tifoseria spesso si risponde con quello del “rifiuto della contaminazione”, cioè della creazione di comunità impermeabili ad ogni dibattito, al confronto, alla riflessione su quel che succede “nel mondo”.
La vescova luterana, presidente del consiglio della Chiesa Evangelica in Germania (EKD) Kirsten Fehrs, commentando l’attentato a Donald Trump, ha ribadito un concetto tanto semplice quanto centrale della fede e dell’impegno protestante. Riferendosi agli USA ha detto: “Prego per questo Paese lacerato”.
Ha cioè ricordato che siamo chiamati a pregare perché le società siano riconciliate. La preghiera, che può essere intesa come richiesta al Signore di renderci capaci di agire, in un Paese lacerato, diviso.
“La violenza – ha proseguito Fehrs all’agenzia stampa EPD – non dovrebbe mai essere uno strumento di dibattito politico. Ciò vale anche per il nostro Paese (Germania). Continuiamo a difendere insieme la nonviolenza”.
Le nostre Chiese hanno forse oggi la libertà di non appartenere a nessuna tifoseria precostituita. La libertà, come Chiese di minoranza non compromesse con il potere né con interessi economici particolari, di mantenere vigile lo sguardo.
Come sentinelle nella notte siamo oggi chiamati e chiamate a difendere insieme la nonviolenza come pratica concreta cristiana.
A rompere il dualismo della contrapposizione tra opposte tifoserie per ribadire che la grazia di Dio ci ha liberati e liberate anche dal fanatismo religioso che rischia di ridursi a strumento di propaganda violenta e pratica di discriminazione e aggressione contro ogni diversità.
Siamo in uno di quei momenti della storia dove tutto può succedere e tutto può avviarsi verso un cambiamento che condizionerà non solo il presente ma soprattutto le future generazioni.
Sforzarsi di avere uno sguardo interessato ma consapevole, una fede capace di ragionare e far ragionare, è forse oggi il compito più difficile. Eppure il più profetico.
Approfondimenti
Articolo sulle elezioni in Venezuela e gli evangelici qui (in francese).
Articolo su Trump e gli evangelici qui (in inglese).